Passione DUCATI
Da ragazzo, sono stato felice possessore di una Ducati…
Oggi, è facile in questo momento storico ammirare una Ducati: sono bellissime, rifinite in ogni dettaglio e con componentistica di prim’ordine. È indubbiamente il loro momento: di proprietà del colosso automobilistico tedesco, hanno risorse da investire nelle corse e nel marketing, hanno standard qualitativi a livello delle giapponesi e un orgoglio produttivo unico al mondo, con una identità ben definita.
Nel 1994 era ben diverso: l’azienda faceva parte del gruppo Castiglioni, risanata da poco, la produzione era molto più artigianale, il mantra era “bicilindrico ad L” e telaio a “traliccio”: non c’erano V4 in gamma e la moto più performante era la “916” presentata da poco.
Le prestazioni, a parte le derivare dalla SBK, non erano il riferimento di categoria e quanto ad affidabilità erano indietro rispetto alla concorrenza giapponese.
Seguivo le gare di SBK, e quando, prima Roche poi Fogarty vincevano, mi dava un gusto eccezionale: “Davide contro Golia”, la piccola azienda bolognese che teneva testa ai colossi, le bicilindriche emiliane che vincevano contro le 4 cilindri giapponesi…
Per cui, cedetti al fascino di queste moto quasi artigianali e mi lasciai ammaliare dalla rossa “bolognese”! Una super sport 600, acquistata nuova con sacrificio e dopo una estenuante trattativa con mio padre… Era bellissima, sinuosa, con carenatura integrale e impostazione da sportiva vera. La disputa con mio padre era originata proprio dal fatto che fosse una moto sportiva, e in secondo luogo dal nome Ducati: nell’immaginario collettivo il marchio bolognese è sempre stato animato dalla sportività, per cui agli occhi di un genitore premuroso e preoccupato, lasciare che il figlio salisse in sella ad una “SUPERSPORT” poteva rappresentare un rischio maggiore rispetto ad una motocicletta normale. In ogni caso riuscii ad acquistarla e conservo ancora oggi dei ricordi bellissimi legati a quella moto, emozioni che solo lei mi ha saputo regalare. I passi sugli Appennini tosco-romagnoli erano lo sfondo ideale per la bolognese. Il tipo di strade, le curve degli Appennini con loro profilo dolce e arrotondato, erano i percorsi che rendevano la mia super sport estremamente efficace. Il motore di 600 cm³ non era eccezionale per potenza, sopratutto se paragonato ad una giapponese quattro cilindri di pari cubatura, ma con l’aiuto di poche modifiche, tra cui un “importante” scarico sportivo, acquisì più carattere e prestazioni: aveva un suono inebriante, che faceva da colonna sonora ai miei momenti sella. E il telaio faceva il resto: nonostante sospensioni “base”, originali, era facilissima da guidare ed estremamente agile tra le curve. Aveva un solo disco freno anteriore, ma più che sufficiente per il peso contenuto della moto e le velocità che si raggiungono per strada.
Dopo qualche anno, da un cliente concessionario, acquistai la mia prima BMW: una R850R bicolore, nera e grigia, di seconda mano. Abbandonai a Riccione la mia gloriosa Ducati, lasciandola in permuta: conservo copia del contratto con nostalgia, e ancora oggi rileggendolo mi pervade un senso di colpa nei confronti della bolognese, ceduta in permuta per la tedesca.
Con il passare degli anni ritengo sia stata una scelta fortunata, anche coraggiosa per l’epoca: con la tedesca diventò un ricordo la bella guida sportiva della rossa, per contro guadagnai la possibilità di viaggiare comodamente, anche con la mia ragazza come passeggera; sulla supersport era praticamente impossibile…